Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere. Non c'è cosa peggiore del doversi raffrontare e dell'aver bisogno di chi non vuol vedere e sentire! Quando ho compiuto dieci anni ho festeggiato la prima Comunione. La casa era strapiena di dolci e dei miei adorati tramezzini, un numero indecifrato di parenti, amici e anche di semi-sconosciuti riempì la casa per giorni. Per me era un gioco, ognuno portava un dono e dal più grande al più piccolo tutti sono ancora impressi nella mia memoria. Quando guardo le foto, seppur a distanza di tempo, non riesco a sorridere, vedo una bambina e una famiglia che stava probabilmente coltivando in sè il frutto di ciò che in seguito con gli anni sarebbe germogliato, nel bene e nel male, ma quando ripongo le immagini e do spazio alla mia memoria allora colgo emozioni che hanno anche del positivo e suggestioni che avrebbero inconsapevolmente aperto la strada alle sensazioni future. La sera, dopo la cerimonia in chiesa e il sontuoso pranzo, non ancora dismessi i panni della giornata, ricordo perfettamente l'immagine di me sul divano e la domanda di una zia che già allora mostrava quella che poi con gli anni sarebbe stata la sua caratteristica di presentazione: la stupidità. "Cosa hai provato quanddo il vescovo ti ha dato l'ostia per la prima volta?" E ricordo che anche in me per la prima volta si manifestò quella che sarebbe stata la mia caratteristica più grande negli anni: l'incapacità nell'esprimere quello che provo realmente. L'anno seguente mi invaghii di un ragazzo di due anni più grande di me e ci incontrammo al mare, situazione propizia e gradevole che sfruttai tornando a casa inebriata e trascorrendo i giorni in bagno a pronunciare il suo nome domandandomi dove finiva la mia suggestione e dove iniziava la sua reale ridondanza cacofonica. Ero una bambina, ma questa affermazione con il tempo si è rivelata solo una constatazione anagrafica perchè ancora oggi che di anni, cerimonie e infatuazioni ne sono passate diverse, la mia tendenza ad esprimere quello che provo ricorda esattamente la sensazione di smarrimento provata davanti a quella zia che mi fece domandare a me stessa "E' stupida lei nel chiedermelo o impacciata io nel rispondere?" Tutte e due probabilmente! Si dice che quando una donna partorisce un bambino in seguito è impossibile che abbia un reale ricordo del dolore del parto, la mente dimentica, almeno in parte, o comunque ridimensiona la cosa e questo spiegherebbe anche perchè a seguito di un tale trauma per il corpo, decida magari di ripetere l'esperienza. Più volte nella mia vita sono stata propensa a ritenere che questo tipo di dinamica possa essere applicata anche ad altre situazioni, seppur molto diverse dal parto. La mente tende a ridimensionare e probabilmente per questo i dispiaceri e le difficoltà attuali ci appaiono sempre più ingombranti di quelle passate. Secondo questa logica mi verrebbe da dire che ho sofferto sì per l'incapacità di comunicare agli altri quello che sono e provo realmente e che il fatto che alla fine quello che sentivo uscire dalla mia bocca non corrispondesse in pieno a quello che realmente pensavo, anzi ne era una storpiatura e mi faceva essere sempre delusa e disturabata da ciò che dichiaravo, mi abbia portato a decidere di aprirmi usando un contagocce in caso di necessità, ma non è comunque neanche lontanamente paragonabile al dolore provocato dalla difficoltà nel chiedere e ricevere aiuto che ho provato in seguito. Qua si apre per me un capitolo enorme però, perchè mentre per altre cose potrei riconoscere anche dei miei limiti, per questo mi domando, e non solo in riferimento a me stessa, ma in generale, possibile che anche nel momento del bisogno si debba essere in grado di chiedere aiuto in un certo modo, esplicito e elementare possibilmente, e ci si debba sentir recriminare di non farlo nella modalità giusta se questa modalità non ci appartiene??? A me sembra tanto un modo anche poco macchiavellico di lavarsi la coscienza sinceramente! Si dice che i primi ad aiutare noi stessi dobbiamo essere noi, e va bene, ma ho visto con i miei occhi realtà in cui se la persona si trova appunto in una situazione in cui ha bisogno di aiuto magari le frasi fatte contano poco e se ce la facesse da sola non penso si divertirebbe nel dover pesare sugli altri! Le istituzioni non sono accoglienti, le asl cascano a pezzi, i privati costano l'occhio della testa e non sempre è così scontato raggiungere una struttura anche qualora ci fosse. Gli amici sono pochi, i parenti di un'altra generazione se non di un'altra epoca, chi rimane? I familiari, la categoria nel bene e nel male più cieca in assoluto! Condizionata da mille fattori da non vedere l'evidente. Ascoltavo una notizia l'altra sera al telegiornale di una donna che aveva fatto duemila denunce perchè la sua carta bancomat probabilmente era stata clonata visto che vi erano prelievi su prelievi che a lei non risultavano, finchè la polizia ha scoperto che era la figlia a prelevare per comprare droga. Agghiacciante, non tanto per il fatto in sè, quanto per la sensazione di distacco abbisale presente in famiglia che ne traspare evidentemente. Ritengo comunque che questo mio esempio pecchi in due cose, una è che ci si sbalordisce solo davanti a espedienti così eclatanti, quando invece i piccoli tarli quotidiani sono i peggiori, l'altra che come dice Guccini le storie tragiche sono sempre troppo vicine o troppo lontane e perciò ci tolgono obiettività nell'esprimere un'opnione. Io non lo so davvero se esiste un modo giusto per chiedere aiuto, ritengo che sicuramente ci siano mille sfumature in ognuno di noi, sapersi comportare nel modo giusto e saper chiedere probabilmente è una cosa complicata ma sono sempre più convinta che sia molto più difficile abbattere il muro che isola chi dovrebbe porgere l'aiuto, magari è tremendo pensare che alcuni sbagli siano il frutto di nostri errori personali riversati su chi ci sta vicino, ma anche il quel caso non è meglio rimediare ed aiutare piuttosto che ricorrere a cecità e sordità?! Io non so quale sia il modo più giusto, ma so per certo che non solo chi allunga una mano ha bisogno di essere afferrato, ma anche chi ha le mani in tasca può desiderare fortemente che vengano accolte, accompagnate e sorrette lungo il proprio cammino.
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